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Cda: ancora terra proibita per le donne

di Monica D'Ascenzo

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8 MARZO 2010

Senza la legge ci vorranno 60 anni per arrivare ad un presenza femminile pari al 30% nei consigli di amministrazione delle società quotate. E se in Italia il dibattito sulle quote di genere stabilite per legge continua di questo passo, probabilmente non resta che aspettare che i 60 anni passino. Nessun segnale, infatti, arriva dal mondo istituzionale e politico nella direzione di un'approvazione dei disegni di legge presentati alla camera e al Senato da esponenti di entrambi gli schieramenti. Un ennesimo segnale negativo è arrivato la scorsa settimana: il comitato per le norme di autogoverno di Piazza Affari ha licenziato una nuova versione dei suoi standard. Nella revisione sono state rimandate a un successivo approfondimento le modifiche più radicali, come l'introduzione di indicazioni di genere nella composizione dei cda. Non che la versione circolata nei mesi scorsi fosse rivoluzionaria: si limitava a indicare che un consiglio di amministrazione ben strutturato è un board in cui si tiene conto anche del genere e dell'età. Nulla di più. E invece anche questa frase è stata cassata. Eppure lo stesso numero uno di Borsa Italiana, in una lettera al Corriere della Sera nel febbraio scorso, aveva dichiarato: "Credo che una maggiore presenza femminile nei consigli di amministrazione sia desiderabile e vada stimolata, non solo per l' elevato contenuto tecnico di cui le donne sono sempre più spesso portatrici ma anche per la diversità di prospettiva e di approccio che le anima", salvo poi sottolineare come le donne preferirebbero arrivare a occupare certi posti non per "quota rosa", ma per meritocrazia.
Capuano, in questo, ha certamente ragione: se si potesse scegliere le manager vorrebbero arrivare a ricoprire a carica di membro di un board per merito e non certo per una quota a loro destinata solo per questione di genere. Di fronte a un sistema che è basato sulla "cooptazione" (termine non appropriato ma che rende l'idea), l'inserimento delle cosiddette "quote rosa" sembra un male necessario e ne è ormai convinto circa l'80% delle manager italiane (secondo un sondaggio che risale allo scorso anno).
Sul fronte dell'iter legislativo non ci sono ancora novità rilevanti. Sono iniziate da qualche mese le audizioni alla commissione Finanze della Camera. Diverse le proposte, che hanno come fattore comune la quota di un terzo dei membri da riservare al genere meno rappresentato. Le differenze sono sulla transitorietà (per due o tre mandati) o meno della norma. In Parlamento sono già quattro le proposte di legge che riguardano le quote, firmate da Lella Golfo, Cinzia Bonfrisco, Ida Germontani e Alessia Mosca. Quest'ultima, che ha presentato la propria proposta nel novembre scorso, ha aggiunto un paio di dettagli in più: che le "quote" vengano applicate anche ai collegi sindacali oltre che ai cda e che riguardino anche le società a capitale interamente pubblico o misto, controllate da pubbliche amministrazioni, oltre alle società quotate in Borsa.
Per ora resta solo il fatto che l'Italia è l'ultima in Europa per la presenza di donne nei cda delle società quotate (2,1%), non solo ben distante dalla Norvegia (44%), ma anche dietro al Portogallo (3%). Un motivo in più per non abolire l'otto marzo.

8 MARZO 2010
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